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Fabio Fiori - Dall'Adriatico al Danubio: un'improbabile avventura velica - La scomparsa delle dune



Dall'Adriatico al Danubio: un'improbabile avventura velica
 
 
Il mare da sempre invita al viaggio. Sulla sua superficie navigano le fantasie di molti; pochi sono invece coloro che hanno coraggio o necessità sufficiente per alzare una vela e partire.
Edoardo Venturini e Secondo Mulazzani lo fecero in un'assolata domenica d'ottobre del 1932. Partirono da Riccione, per un lungo viaggio verso l'affascinante e misteriosa Europa orientale. In quegli anni Mussolini propagandava l'idea di un popolo ardito; le grandi avventure degl'italiani avrebbero rinnovato la stirpe di genti eroiche e riportato gloria eterna alla patria. Così, mentre nomi famosi riempivano le pagine dei giornali con le loro gesta, in provincia i giovani fremevano e la loro esuberanza cercava sfogo in audaci progetti. In Romagna poi l'inverno è particolarmente lungo. Il vivere quotidiano diventa monotono per chi, abituato alle travolgenti stagioni estive, sogna le luci della ribalta o la gloria di un'indimenticabile impresa.
Così fu probabilmente per quei due ragazzi che intrapresero con una piccola barca di neanche tre metri, accessoriata di carrello stradale, un'inusuale avventura. Un itinerario lungo e faticoso, di cui si occuparono ampiamente anche i giornali nazionali. Essi partirono muniti solo della loro spavalderia e della fortuna, che fu loro di grande aiuto. Non possedevano neanche la micro-imbarcazione. Chi raccolse la testimonianza dei marinai, riportò che venne usato il cutter “Azleton, sembra dal nome di un cavallo da corsa, di proprietà di un bagnante forestiero che l'aveva dato in custodia al marinaio Edoardo Venturini”. Confidavano di sostenere il raid con la vendita di cartoline pubblicitarie raffiguranti la loro barchetta che portava sulla vela il nome di Riccione. Avrebbero promosso turisticamente la città natale, che in quegli anni s'andava affermando, nei lontani paesi danubiani.
Intrapresero il viaggio via terra, percorrendo il lungomare, diretti a Vienna, la città asburgica conosciuta attraverso i racconti degli ospiti estivi e fantasticata negl'interminabili pomeriggi invernali. Su un percorso misto, fatto di strade, sentieri, fiumi e canali, “i due marinai si portarono fino a Chioggia e di là risalirono il corso dell'Adige fino a Verona. Quivi ebbero la prima disavventura perché il piccolo scafo si ribaltò presso un mulino. Ma tutto fu rimesso in ordine”. Se i contadini veneti provarono un certo stupore nel vedere la minuscola vela navigare lungo i canali, enorme sarà stato lo sbalordimento dei trentini al passaggio sui sentieri di montagna “della barca a rotelle”, trainata dai due marinai nel loro bizzarro andar per terre! Le cronache riportano che “al valico del Brennero fu necessario attaccare un cavallo al carrello”. Raggiunsero Vienna sul finire dell'autunno e qui incontrarono i primi grandi freddi dell'Europa centrale. Il Danubio, via d'acqua tanto sognata, non era nel suo leggendario blu, ma di un colore grigio ben meno romantico. La corrente era comunque favorevole ai riccionesi che si fecero trasportare ancora più lontano, verso favolose città orientali: Bratislava, Budapest, Belgrado. Ancora numerose furono le contrarietà di questo spericolato viaggio e tra le varie vicissitudini i giornali riportarono che sul Danubio “per il vento fortissimo l'imbarcazione si rovescia una seconda volta perdendo le ruote”. L'inverno intanto avanzava imperterrito, portando neve e temperature polari. In Romania “Il Danubio è gelato e la nave mosca è bloccata dai ghiacci, ma viene tratta poi con grandi sforzi a riva”. Di qui i due intrapresero una lunga marcia a piedi, da Cernavoda a Costanza, per raggiungere finalmente le rive del Mar Nero. Increduli, però, ritrovarono ghiacciate anche le acque salate, “ma gli audaci piloti riescono a mettersi sulla scia di un postale romeno” e a raggiungere eroicamente Costantinopoli.
Le pagine azzurre della cronaca sportiva de Il Resto del Carlino diedero grande spazio ai temerari marinai solo dopo il loro approdo a Napoli, successivamente al rocambolesco attraversamento dello stretto d'Otranto. Infatti dopo aver raggiunto l'isola di Corfù i romagnoli, che erano anche sprovvisti di bussola, tentarono la traversata del pericoloso braccio di mare che separa le coste greche da quelle italiane. Probabilmente deviati dalle infime correnti, si ritrovarono dopo due giorni ancora in alto mare, d'inverno, su un guscio di due metri e settantacinque centimetri di lunghezza! Ancora una volta la fortuna venne loro in soccorso e “furono salvati dal piroscafo Aventino, che si trovava sulla stessa rotta”. A Napoli, dove giunsero il 22 di febbraio del 1933, Venturini venne “ricoverato all'Ospedale della Pace per febbri reumatiche contratte nel difficilissimo passaggio dal Danubio al Mar Nero. Fiume e mare erano gelati e la temperatura segnava diciannove gradi sotto zero”. Malgrado le precarie condizioni fisiche in pochi giorni i due si rimisero in rotta, sorretti dall'entusiasmo ritrovato nel raggiungimento dell'amata patria e della meritata fama. A Roma vennero accolti da una gran folla di curiosi che aveva letto dell'ardita impresa marittimo - fluviale e furono ricevuti da importanti gerarchi fascisti, “da S.E. Starace e da S.E. Rossoni”. Nel risalire lo Stivale vennero accompagnati da un appassionato pubblico e il 25 aprile, all'arrivo a Milano, il Corriere della Sera dedicò loro un articolo, titolando: “Le peripezie di due marinai che hanno percorso l'Europa in barca”. Il giornale riassunse i trascorsi sette mesi d'avventura e aggiornò la cronaca narrando di un ultimo pericoloso rovesciamento a nord di Marina di Carrara, causato da una forte libecciata, che costò ai romagnoli la perdita dei bagagli. Ma a questo punto, reduci da ben altre difficoltà, quest'ultima sciagura dovette sembrare un banale incidente. Così come, quando già tanta acqua e tanta strada era stata percorsa, probabilmente brevissimo gli apparve il trasferimento che li portò a toccare trionfalmente le città di Ferrara e Bologna, per riapprodare finalmente a Riccione, nel maggio del 1933. Avevano vissuto con alterne vicende tre stagioni in giro per l'Europa, percorrendo oltre diecimila chilometri, trasportati o trasportando il loro minuscolo vascello.
Un sogno si era appena concluso, ma il successo raggiunto spinse i marinai a programmare un altro grande tour e a preannunciarlo trionfalmente alla stampa, “poiché è loro intendimento preparasi per un nuovo raid ancora più lungo e audace”.
Nell'autunno successivo infatti in formazione allargata, ai due si aggiunse Ugo Bertozzi, i “torelli romagnoli” erano di nuovo pronti a partire. Questa volta disponevano di tre dinghy, appositamente costruiti con il contributo dell'Azienda di Cura e Soggiorno, oltre ad un fondo comune di cinquecento lire donate da “donna Rachele”. I tre ambivano, sorretti anche dall'importante aiuto ricevuto, ad una ancor più eclatante impresa: attraversare la Francia per poi circumnavigare l'Europa Occidentale e rientrare, dallo stretto di Gibilterrra, in Mediterraneo. Ma questa volta la fortuna, forse indispettita da tante autorità accorse in aiuto, abbandonò i marinai. Nel breve volgere di qualche mese si ritrovarono coinvolti in un tourbillon di problemi nautici e liti personali. Tra due di loro volò addirittura qualche pugno, con reciproche, gravi conseguenze. Seguirono problemi con la polizia francese, telegrammi minacciosi del podestà intimanti il ritorno e una paradossale inchiesta ministeriale per sapere, “come e perché ci sono in giro per l'Europa tre giovani riccionesi che si spostano, per terra e per acqua, su tre piccole imbarcazioni a vela vendendo cartoline di réclame per Riccione”. Soli, abbandonati e indagati, i tre, che nel frattempo si erano riappacificati, si videro così costretti ad un mesto rimpatrio.
Esaurita miseramente l'avventura, i due più esuberanti, sempre amici malgrado le scazzottate, cercarono fortuna andando a lavorare nel circo Schneider come acrobati e giocolieri. Poi, negli anni successivi, uno si arruolò volontario nelle camicie nere per andare a combattere in Spagna, mentre l'altro scelse la via del mare che lo portò, attraversando gli oceani, in paesi lontani. Il terzo, facendo il pescatore, navigò invece le meglio conosciute acque adriatiche.
Dopo la guerra i protagonisti di queste avventure distrussero buona parte delle fotografie e dei documenti, per paura di ritorsioni antifasciste. Così a circa mezzo secolo di distanza dalle vicende, rimangono le cronache leggendarie della prima impresa e quelle farsesche del secondo viaggio, partito in pompa magna e infelicemente naufragato.
 
 
 
 
 
La scomparsa delle dune  
 
Le dune come onde del mare si muovono, crescono o scompaiono, a seconda dei venti. Ci sono spiagge dove le dune sono alte come colline, in altre sono solo piccoli dossi. Ci sono spiagge dove le dune separano la campagna dal mare, altre in cui sono solo un ricordo. Così è a Rimini, città balneare per eccellenza, luogo e al contempo nonluogo, spiaggia sincretica di nature e culture novecentesche.
Ma sulla riva del mare, nei giorni di nebbia, le ombre evocano ricordi e può capitare di scambiare il fronte alberghiero con quello dunoso. Il profilo delle dune chiude l'orizzonte a ponente e amplifica il rumore del mare; più intenso si fa il richiamo d'oriente, più struggente il senso di una perdita.
L'eccezionale sviluppo urbanistico della costa romagnola avvenuto nel dopoguerra ha cancellato completamente il paesaggio naturale costiero, di cui rimane traccia soltanto nel ravennate. L'ambiente marino era separato da quello di campagna da una fascia dunosa di ampiezza variabile, una zona di transizione che mitigava l'azione del mare sia nei suoi effetti atmosferici, quali vento e salsedine, sia nelle sue continue fluttuazioni, processi di erosione o accumulo. L'attuale cementificazione di questa fascia ha imbalsamato un confine che difficilmente il mare accetta. Non è caratteristica della Natura avere limiti certi, confini rigidi!
Le dune vive, cioè quelle che sono in continua evoluzione, ricoperte da bassa vegetazione, erano lunghe da qualche decina di metri a chilometri, alte fino a tre-cinque metri. La fascia a dune si andava allargando dal riminese al ravennate, con un'ampiezza variabile dai cento ai settecento metri. Nel sud della Romagna, già da tempo maggiormente antropizzata, la politica autarchica del ventennio fascista incentivò la creazione degli orti sulla spiaggia a discapito delle dune. A questa azione di bonifica agricola, si aggiunsero in quegli anni le prime ampie lottizzazioni medico-terapeutiche e turistiche; in breve tempo sorsero lungo la spiaggia colonie, alberghi e villini. Superato il periodo bellico il progresso balneare normalizzò completamente il paesaggio marino. La spiaggia venne ristretta a poche decine di metri, la vegetazione completamente estirpata.
Un affascinante paesaggio costiero è andato perduto, così come una delle materie prime del distretto turistico più grande d'Europa: la sabbia, la preziosa, fine sabbia dorata. “Nel giro degli ultimi venticinque anni sono andati perduti irrimediabilmente più o meno dieci milioni di metri cubi di dune, equivalenti ad un fronte continuo di sabbia largo cinquanta metri e alto due, esteso lungo tutto l'arco costiero regionale”, si legge in un dettagliato rapporto tecnico redatto sul finire del Novecento.
Ma, al di là delle relazioni tecniche e degli aspetti ecologici, su cui andrebbero sviluppate approfondite riflessioni utili se non altro alla gestione dei beni naturali rimasti, cos'erano le dune? come era vissuto quell'ambiente costiero?
“La spiaggia era lo spazio che prendeva una parte del mare, la riva, l'arenile, le dune, i cespugli di tamerici che ne segnavano il confine con i coltivi. Era il nostro far-west, il territorio su cui eravamo insediati nel nostro tempo libero di bambini con licenza della mamma... . Le dune, nell'insieme della spiaggia, una volta, erano la parte più vasta e inesplorata; bilanciavano la parte bassa, cioè la spiaggia balneare (in tempi antichi chiamata zona del naufrago) e rappresentavano il settore improduttivo e degradato dell'area. Solo per noi bambini era il luogo immaginoso della nostra fantasia. Le dune si formavano naturalmente per l'azione dinamica del vento sulle sabbie della spiaggia, facendone cumuli da modellare e rimodellare in continuo nel corso dell'inverno, fino a delineare un paesaggio diverso dal precedente ma sempre soggetto a modificazioni anche incisive. A primavera le forme si erano stabilizzate e questo mini paesaggio collinare sostanzialmente restava così per tutta l'estate. La vegetazione era scarsa e cresceva per lo più nelle bassure umide”, ha scritto Dante Tosi.
Altrettanto viva la testimonianza di Ivo Gigli, che nel libro La marina perduta descrisse un'incipiente attività balneare, integrata con l'ambiente naturale. “Stavo molto sul bagnasciuga o nell'acqua e vedevo le tende (non c'erano ombrelloni, erano rarissimi) che ogni tanto il bagnino o il babbo spostavano con il girare del sole e tra una corsa e un bagno mi rifugiavo nella loro ombra per mangiare ed oziare. V'era una lunga fila di capanni in legno (erano solo di legno a quel tempo) della Stella Polare, rialzati con gradinata e portichetto e dietro la spiaggia selvatica, quella che piaceva a me, piena di dune e dunette che variavano con il variare del vento, con canne, agropiri di mare, la gramigna delle spiagge, cespi di lunghe foglie sottili, euphorbie fiorate, piante grasse e spinate come lo sparto pungente. In fondo, dove finiva la sabbia, le immancabili ville”.
Quest'ambiente sabbioso, almeno sino alla fine dell'Ottocento, era poi ricco di paludi, pozze, stagni e sorgive. Una precisa descrizione la fece il generale Luigi Ferdinando Marsili, che nel 1715 venne mandato in missione dal Papa per acquisire informazioni sullo stato della costa romagnola e sulle possibili opere di difesa dal pericolo saraceno. Questi lamentava che il cavallo su cui viaggiava aveva sempre le zampe nell'acqua, acqua salata ma anche dolce, potabile e preziosa, “in più siti della spiaggia arenosa tra Rimini e Cesenatico, in tempo di riflusso, molte piccolissime sorgenti d'acqua dolce et isquisite, le quali scaturiscono continuamente sotto l'acqua del mare quando in detto luogo evvi il flusso”. Di queste sorgive e sulla presenza di polle d'acqua dolce in mare, poco a nord di Rimini, scrisse anche l'ingegnere Niccoli, chiamato in città per risolvere i problemi idrici, alla fine dell'Ottocento. Nella relazione l'ingegnere descrisse gli strati ghiaiosi acquiferi che si aprono a triangolo, con apice sotto Verucchio, nel primo entroterra riminese, e base posta su “una linea sub-marina assai distante dalla spiaggia, ove termina il corso sotterraneo recando al mare il suo tributo d'acqua dolce”. Alcuni di questi acquiferi affioravano sulla spiaggia, come vere e proprie sorgive in riva al mare.
Ancora negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, a poche decine di metri dalla battigia se ne trovava una a Viserbella di Rimini, conosciuta dai locali come e' Sourcion. La tradizione popolare aveva legato il nome della sorgente al cerchione, protezione che delimitava l'area paludosa fino all'immediato dopoguerra. O, forse, la parola deriva dal francese source, sorgente, termine ereditato durante il passaggio delle truppe napoleoniche. Negli anni Cinquanta del Novecento, sulla stessa sorgente venne rilasciata una concessione mineraria, denominata Sortie, che non venne però mai sfruttata.
Così come le dune, anche le sorgenti vennero sacrificate. Lo sviluppo economico necessitava e necessita di spazi; completa è, e spesso rimane, l'indifferenza per i caratteri ambientali. Così peculiari luoghi geografici, colline, pianure o spiagge, sono trasformati in anonime aree di sviluppo, urbano, industriale, artigianale o balneare. Lo “sviluppo senza progresso”, nella sua declinazione balneare, ha richiesto anche lo spazio sabbioso occupato da e' Sourcion. Il sito naturale di salienza è stato negli anni successivi coperto da una piscina e le acque, incanalate, portate a pochi metri dal mare. “Chiare, dolci, fresche acque”, ridotte, assimilate, a scarico urbano.
E dire che nell'immaginario popolare e' Sourcion è stato fino alla metà del secolo scorso un luogo naturale misterioso, da rispettare e allo stesso tempo da temere. Nella zona si diceva ci fossero sabbie mobili capaci di inghiottire, secondo la leggenda, un contadino con il suo carro trainato da buoi. “In un pomeriggio di novembre, uno di quelli in cui l'aria tersa dal garbino fa apparire le colline più vicine al mare, un contadino di Castellabate alla guida di un baroccio agricolo a due ruote alte trainato dai buoi si dirigeva alla marina. Nessuno ha mai saputo bene il motivo di questo viaggio. Alcuni affermavano che andasse a caricare sale o un'altra partita di contrabbando che un bragozzo doveva trasbordare sulla spiaggia; altri sostenevano che, come allora era usanza, conducesse le bestie sul primo scanno del mare per lavarle con l'acqua salata”, ha scritto Enea Bernardi. Poi repentinamente il vento girò e il mare e la spiaggia vennero sommersi da una fitta nebbia “venne la mattina, ma il contadino non aveva fatto ritorno a casa. Lo cercarono da tutte le parti inutilmente. Di lui, del carro e dei buoi non si ebbe mai più notizia”.
Quella spiaggia fatta di dune, erbe psammofile, cespugli resistenti alla salsedine, pozze d'acqua e qualche isolata sorgente non esiste più, un ecosistema unico è andato irrimediabilmente perduto. Oggi di dune e sorgenti rimane un ricordo, che negli anni inevitabilmente scolora. E domani, chissà? perché le rive del mare, come le dune, sono mutevoli e le acque sotterranee prima o poi riaffiorano.
 

 

da Fabio Fiori, Adriatico piccole storie di mare e di costa, Nuova iniziativa editoriale - l'Unità, 2004

 
 
 

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